Clever girls, clever boys

Invece sono entrata, e ho visto nella sala l’altra ragazza presente: una faccia conosciuta, che non riuscivo a identificare ma che mi ha tranquillizzata. Le sono andata incontro con il mio solito passo falsamente deciso, ma aveva già il picchetto d’onore schierato a entrambi i lati, e non mi sono potuta sedere vicino a lei. Dopo cinque imbarazzanti minuti passati a mendicare un posto (excuse me, is this seat taken? che mi volevo ancora dare qualche aria, prima che scoprissero che in effetti sono italiana) due anime pie han spostato le borse facendo finta di niente, e mi hanno fatta accomodare.

In un attimo mi sono lasciata trarre in inganno dalla calma apparente. Così, quando il generale ha iniziato a parlare, mi sono appoggiata allo schienale, ho sorriso alla terza ragazza che era entrata per ultima e si era seduta di fianco a me, e ho accavallato le gambe, allungandole languidamente in avanti. Che tra scale e sentieri di ghiaia e tenentini che sbagliano strada, stavo già iniziando a intuire gocce di sangue tra le mie dita dei piedi. Ed è stato un attimo.

Perchè in quel momento, l’anima pia che mi aveva lasciato il posto e si era seduto davanti a me, senza guardare ha allungato la mano per prendere qualcosa nella sua borsa. Che stava di fianco alla sua poltrona. Sotto i miei piedi.

Indovinate che cosa ha afferrato? Esatto. Il collo nudo del mio piede, stretto in una scarpa col tacco.

Che poi, con un primo approccio così, il resto del corso non può che essere uno spasso, giusto?

E infatti.

Tre cose mi sembrano degne di menzione, a un mese dalla fine del corso (sì lo so, arrivo sempre in ritardo). La prima sono i pasti, la seconda sono i bagni, la terza sono i soprannomi.

I pasti alla mensa militare non ve li potete immaginare. Cercate di visualizzare la sala di Harry Potter, quella con i soffitti talmente alti che si vede il cielo, con quattro grandi tavoli e, disposto perpendicolarmente, il tavolo dei professori. Al posto di Grifondoro, Corvonero, Tassorosso e Serpeverde mettete file e file di militari, interrotti qua e là da un civile dalla faccia sperduta (io). Al posto di Silente, il supergenerale comandante galattico della Scuola. Immaginate che tutti entrino e rimangano in piedi ciascuno davanti alla propria sedia. Poi entra il supergenerale comandante galattico, suona una campana, tutti si girano verso di lui e scattano sull’attenti. Poi la campana suona di nuovo, e con grande raschiare di sedie sul pavimento, ci si siede e ci si abbuffa. Letteralmente: perchè per mangiare c’è solo mezz’ora di tempo, poi la campana suona di nuovo e si deve smettere di mangiare e scattare sull’attenti, per salutare il supergenerale che se ne va. Che a ben pensarci, uno si aspetterebbe che i militari mostrassero molti più segni di squilibrio, a fare una vita così. Io, che volevo fare la signorina che mangia come un uccellino e non osavo riempirmi il piatto, praticamente non ho mangiato, impegnata com’ero a mantenere una conversazione dignitosa con i miei vicini tra un boccone e l’altro delle mie porzioni da madamina.

Ma tra i pasti permettetemi di annoverare anche la ice-breaking dinner, una meraviglia in abito da sera – a buffet, avete capito, con i miei poveri piedi che non sapevano nemmeno più in che lingua bestemmiare. E come non contare i caffè e le colazioni? Mai bevuto tanti caffè in vita mia, a partire dai primi tre offertici il primo giorno da tre aitanti compagni di corso in tre momenti distinti della giornata – tanto che il più assiduo di loro si è meritato, nel corso delle settimane, il soprannome di “What else?” di clooneyana memoria. E le colazioni, che all’inizio erano casuali e poi si sono trasformate in un rituale, tanto che io avrei potuto prendere l’autobus successivo e sarei arrivata in orario lo stesso, ma preferivo alzarmi prima e correre alla Scuola per non perdere la colazione comunitaria, oggi tocca a me offrire. Una meraviglia.

La seconda cosa sono i bagni. Perchè i bagni, alla Scuola, si trovavano solo ai due lati opposti del palazzo: perciò per arrivarci bisognava attraversare due corridoi eterni, su cui si affacciavano innumerevoli aule. Piene di innumerevoli militari. Che al sentire il rumore dei tacchi sul pavimento (ve lo giuro) si alzavano per affacciarsi sul corridoio e vedere chi stesse passando. E passavo io, a volte con la mia compagna (lei era tedesca veramente, mica come me). E loro ci guardavano. Come se non ne avessero mai vista una, prima.

Così a un certo punto della seconda settimana mi sono stufata di fare il défilé, e l’anima pia si è offerto di accompagnarmi nell’altro bagno: stessa lunghezza di corridoio, molte meno aule. Arriviamo, e ovviamente il bagno delle signorine è fuori servizio. Allora mi dice Dai, non c’è nessuno, ti faccio la guardia io. Vai in quello dei maschi (come se avessi bisogno di incoraggiamento per andare nel bagno dei maschi). Tanto è deserto. Così sono andata, e quando sono uscita il bagno era – indovinato? Pieno. Di militari. Che han strabuzzato gli occhi, chiaramente, a vedere una madamina nel loro bagno. L’anima pia ha alzato le spalle con un sorriso, come a dire Sei femmina, che ti aspettavi? Indifferenza?

La terza cosa sono i soprannomi, che a volte sono studiati come nel caso di “What else?” ma a volte sono offerti dalle circostanze con magistrale senso dell’umorismo. Per esempio il maggiore Cantarella, che ovviamente non è il suo vero nome, ma uno dei relatori al corso millantava essere a lui legato da lunga amicizia, eppure invece di chiamarlo con il nome giusto ha continuato, per due ore, a chiamarlo Cantarella. Tanto che il nome è rimasto.

Poi abbiamo avuto Nokia, la Pepia, la Sciuretta, il CascamoLto che era una deliziosa via di mezzo tra un cascamorto normale e uno che faceva il cascamorto non poco, ma molto. E quello che preferivo era il mio, Gioia, come mi chiamano i miei amici dell’Università della Terza Età quando torno al mio paese, e che mi sa di casa.

Ho imparato un sacco di cose, durante questo corso. Ho imparato che la parola d’ordine, oggi, quando si tratta di interventi post bellici o di stabilizzazione e ricostruzione, è “comprehensive approach”. Era diventato quasi uno scherzo tra di noi, tante volte lo abbiamo sentito ripetere. Ho imparato a confrontarmi con persone che hanno fatto la stessa scelta del mio moroso lontano, ad essere umile e ad accettare i loro consigli. Ho imparato che certi legami da gita delle medie non devono per forza finire alla fine della gita. Che certe telefonate mi fan venire il magone, e la voglia di vedersi a volte non si riesce a sopportare, ma ogni legame che si stringe e ogni telefonata da magone nel cuore della notte sono mattoni che mi aiutano a costruire il muro della mia forza, che mi tiene in piedi.

Soprattutto, ho imparato che questa canzone nasconde una grande verità: clever girls like clever boys much more than clever boys like clever girls, alle ragazze intelligenti piacciono i ragazzi intelligenti molto più di quanto ai ragazzi intelligenti piacciano le ragazze intelligenti. Specialmente se a “clever girls” si aggiunge “bionde”.


3 risposte a "Clever girls, clever boys"

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